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L’esterno della Villa Borsani, fotografia del 1945 di Elio Luxardo
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Villa Borsani: nel passato si sognava il futuro

Una storia che ripercorre il Novecento, descrivendo lo spirito imprenditoriale di questa parte di Lombardia, che ha fatto del lavoro una bussola esistenziale

Tommaso Fantoni apre le porte di Villa Borsani

Tommaso Fantoni è venuto ad accogliermi sulla soglia di casa. È da Gaetano Borsani, il patriarca, che dobbiamo iniziare, quando un secolo fa, a Varedo, fonda un atelier di arredamenti. Oggetti unici, dal gusto mitteleuropeo. ‘Mobili in stile’ che nel tempo si evolvono e assumono forme più moderne, contemporanee, senza perdere in raffinatezza. È stato questo il laboratorio immaginifico del figlio Osvaldo, fin da ragazzino, quando frequentava gli artigiani del legno, i decoratori, gli intagliatori. Una scuola pratica, sul campo, prima di frequentare l’accademia di Brera e poi il Politecnico. Ché anche Osvaldo, figlio di cotanto padre, bruciava le tappe, irrequieto. Si laurea in architettura nel 1937, ma già quattro anni prima, ancora studente, era stato premiato alla V Triennale per la realizzazione di una Casa minima, manifesto edificato di adesione ai dettami razionalisti della migliore avanguardia dell’epoca.

Villa Borsani – una casa del 1944

Tommaso mi apre la porta di casa, abbandono cappotto e ombrello e mi guardo attorno. «Questa non era la casa di Osvaldo», mi spiega. Qui abitava Fulgenzio, il gemello omozigote. La casa è del 1944. Gli Arredamenti Borsani Varedo – ABV – viaggiavano a pieno regime, i due figli di Gaetano collaboravano col padre. Gaetano aveva bisogno di una casa per la sua famiglia, a due passi dai laboratori. Osvaldo ebbe l’intelligenza di non riproporre per il fratello un oggetto radicale, come quello della Triennale, ma una casa che riuscisse ad essere raffinata e moderna, elegante e domestica. Mi soffermo sui particolari, gli infissi, i marmi. Da un punto di vista decorativo sento come una risonanza, un’attenzione al modello di casa borghese che in quegli anni Piero Portaluppi stava sviluppando a Milano. 

Planimetricamente invece, nella distribuzione degli spazi e dei volumi, Osvaldo guardava verso Vienna, al raumplan di Loos. Le due spinte non cozzano, non c’è contraddizione. In fondo questa casa non doveva essere un manifesto, un esperimento, una teoria applicata. Doveva essere una casa per la famiglia. Forse discussa assieme, attorno a un tavolo. Perché assieme, i due gemelli, hanno fatto molto. Finita la guerra, erano abbastanza adulti e consapevoli da capire che l’Italia andava ricostruita e che l’atelier paterno aveva bisogno di diventare qualcosa di più: un luogo dove produrre a una scala più ampia, passando dalla tradizione artigianale alla produzione industriale di serie, dato che con il boom economico alle porte la domanda sarebbe stata enorme.

La storia della famiglia Borsani 

Fondano la Tecno. Era il 1953. Il sito della fabbrica era alle spalle di questa casa, l’ufficio progetti e lo show room in via Montenapoleone a Milano. Come ebbe a dire una volta Fulgenzio, con praticità brianzola: «Osvaldo disegnava e io facevo i conti». Tommaso fa scorrere un’anta in legno intagliata e mi porta nella zona a giorno. Campeggia un camino intarsiato da ceramiche di Lucio Fontana. Resto senza fiato. «Fontana era un amico di famiglia», mi spiega Tommaso. Si erano conosciuti all’Accademia e non si erano mai persi di vista.

Era nella natura di Osvaldo incontrarsi con altri talenti dell’epoca e collaborare con loro, che fossero artisti, fotografi, designer, architetti. Il gusto non era cosa che restava costretta in una disciplina, si moltiplicava nel continuo confondersi con le altre forme d’arte. Negli anni Osvaldo ha progettato gli appartamenti di molta della meglio borghesia meneghina, dove non era raro che il soffitto o le pareti fossero decorate dagli artisti amici suoi – Fontana, Pomodoro, Spilimbergo. Riconosco alcuni pezzi d’arredo della Tecno, ma non sembrano qui a fare bella mostra di sé, come in un museo. Passo una mano sul tessuto di una poltrona, è leggermente lisa. Da quanto tempo, chiedo, non è più abitata? «Sono circa dieci anni», mi risponde Tommaso, «da quando la zia non c’è più». Oggi c’è Federico, nipote di Fulgenzio. Sento dell’affetto in queste parole. 

Tommaso Fantoni, architetto

Tommaso Fantoni non è solo un architetto che mi sta facendo visitare una bella casa del secolo scorso. È il depositario di una memoria familiare. Non c’è angolo della casa che non sia luogo dove le migliori menti di una generazione si incontravano e dove le piccole storie famigliari riprendono vita. Come nel giardino oggi sommerso dalla neve. «Qui», mi racconta, «da bambino pedalavo in bicicletta avanti e indietro immaginandomi al giro d’Italia». Questo unire lavoro e famiglia, casa e bottega, lavoro e amicizia è stata la forza dei Borsani. Fulgenzio da casa sua con uno sguardo vedeva la fabbrica. Osvaldo viveva all’ultimo piano dell’edificio di via Montenapoleone, riprogettato nel dopoguerra come vetrina dei prodotti Tecno. I soffitti in vetro che permettevano la visione anche dei piani superiori lasciavano a bocca aperta ogni passante che si fermava ad ammirare il modo ‘moderno’ di abitare, di arredare.

Villa Borsani: gli interni e il giardino

Osservo qui dal giardino la casa: ha un aspetto quasi austero, cubico. La decorazione degli interni – lampade in ottone o in legno sagomato, pavimenti in marmo bicolore, balaustre in vetro – sembra non volersi esibire all’esterno. Anche se a ben vedere anche qui ogni singolo elemento chiede attenzione: gli imbotti delle finestre in monoliti di granito, i serramenti in legno a doppio vetro e camera d’aria, la cancellata d’ingresso in ferro, la piscinetta mosaicata, gli inserti in ceramica di Fontana nel pergolato in cemento armato. Nulla, allo stesso tempo, deve apparire come ostentato. Non l’esibizione, ma il gusto. 

Ho visitato e studiato Casa Boschi-Di Stefano e villa Necchi-Campigli. Due modi di interpretare l’abitazione borghese del Novecento a Milano. Nonostante la bellezza, la musealizzazione le rende sacrali, distanti. Qui, si respira aria di casa. Lo specchio della toeletta in camera da letto sembra sia stato appena alzato dalla proprietaria, la cantina ha bottiglie impolverate di Barolo, nello studiolo pare ancora di sentire gli echi delle discussioni, riguardo l’inclinazione dei bracioli, fra Gio Ponti e i fratelli Borsani. 

L’intera Varedo, che fu per decenni città-fabbrica, mi viene da dire ‘Tecno-Città’, cresciuta, sembra abbracciare questa villa suburbana immersa nella metropoli lombarda. La neve mi appare come un dono del cielo. Prometto di tornare a visitare casa Borsani, a primavera, col sole e il verde degli alberi del giardino. Ora, sotto questa coltre imbiancata ho come la sensazione che la casa galleggi in un tempo sospeso, in letargo da dieci anni, in attesa di risvegliarsi, ospitale. Forse non più per accogliere gli artisti che fecero la rivoluzione del gusto del secolo scorso, ma per aprirsi ai talenti che vogliono venire a visitarla, e ai curiosi che desiderano imparare come ci si sentiva ‘a casa’ quando, nel passato, si sognava il futuro.

Osvaldo Borsani: Archivio 1925-1985 , a cura di Giampiero Bosoni, Skira,  2018

I Borsani – la casa di famiglia

Nel 1943, Osvaldo Borsani inizia a progettare la casa sul terreno adiacente la crescente fabbrica ABV. Era necessaria una casa che potesse ospitare il padre Gaetano e le crescenti famiglie dei gemelli, e fare in modo che il controllo sulla produzione fosse efficace. Due anni dopo, finita la guerra, il progetto terminato è un villa di medie dimensioni con le tematiche tipiche della sua opera di architetto e progettista di interni. 

Una struttura razionalista

Fatta di volumi chiusi che si intersecano e legano a elementi pergolati fissi, e strutture vuote a creare spazi esterni, racchiude una concatenazione di spazi interni volutamente posizionati a differenti livelli, per separare flussi diversi dando loro indipendenza. In parte gioco prospettico di Loosiana memoria, in parte strategia funzionale. La dimensione, non monumentale ma spaziosa per tutti, è proporzionata a una famiglia numerosa. Il giardino tagliato con le stesse proporzioni. 

Gli interni di Villa Borsani

Nell’atrio d’ingresso, portano il segno del gusto sofisticato dei tempi: i dettagli sono realizzati in intarsio di marmi diversi, vetri molati e borchie di ottone; le boiserie contengono ripostigli segreti integrati negli spessori. Tutte le lampade sono su disegno di Borsani e prodotte in azienda, come tutti gli altri elementi che compongono la Villa. 

Lucio Fontana appena tornato dall’Argentina

A Lucio Fontana i Borsani commissionano la battaglia in ceramica per il camino del soggiorno, tutt’ora in posizione. Era il 1947. Celebri sono gli intervalli con Gio Ponti e le disquisizioni sull’inclinazione dei braccioli, o – tra gli amici più vivaci – le visite di Fontana o Fabbri. La Villa, oggi, vive nel suo stato di conservazione originale, ed è ancora della famiglia Borsani.

Gianni Biondillo

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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