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00_04 Lampoon, Gianfranco Ferré, schizzi per la collezione autunno inverno1981 1982
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Il soft power del Giappone: dalla Madama Butterfly a Rei Kawakubo

La terza fase delle influenze nipponiche è quella contemporanea. Alcuni sociologi lo chiamano soft power – attrarre il mondo attraverso la cultura. Laura Dimitrio Spiega come lo stile giapponese abbia trasformato l’estetica occidentale

Issey Myake, Rei Kawakubo, Kenzo Takada, Kansai Yamamoto. Dagli anni Settanta in poi presentano le collezioni a Parigi. Non solo kimono. Come il Giappone ha rivoluzionato la moda, edito da Skira, di Laura Dimitrio, racconta le trasformazioni che la cultura nipponica ha portato nella moda occidentale.

Il Giapponismo e la Kimono Mania

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’interesse nei confronti della cultura giapponese dilaga in l’Europa. Il 31 marzo 1854 il Giappone firmava infatti la Convenzione di Kanagawa con gli Stati Uniti, un trattato commerciale che poneva fine all’isolamento in cui il Paese era immerso da quasi due secoli e mezzo. Il Sol Levante iniziava a esercitare la sua influenza sull’Occidente – teatro, moda, pittura, design ne raccontano gli esiti. Nel 1896 il Corriere della sera pubblica un manifesto con una donna giapponese. Vestita con l’okaidori, è circondata da iconografie tradizionali. La Madama Buttefly di Giacomo Puccini, al debutto nel 1904 al teatro La Scala di Milano, è considerata l’espressione più alta del giapponesismo italiano.  

Cominciarono ad apparire nelle riviste immagini di signore giapponesi con indosso il kimono. L’interesse della moda per il Giappone fu tale che scoppio la Kimono Mania. L’abito era apprezzato dalle signore di tutte le classi sociali dell’epoca. Era considerato un indumento comodo da indossare, soprattutto come veste da camera nell’ambiente domestico. Netta la contrapposizione con la moda occidentale, che prevedeva abiti avvitati e corsetti per risaltare punto vita e forme femminili. «Secondo la storica della moda Akiko Fukai – spiega Laura Dimitrio – le influenze giapponesi sulla moda occidentale si sono manifestate in quattro tappe. Dapprima il kimono è stato introdotto come elemento esotico. Poi sono stati imitati nei tessuti i motivi decorativi giapponesi e i loro metodi di stampa. In seguito, si è verificata una ‘presa di coscienza della plastica del kimono’. Infine, la moda ha tratto una libera interpretazione dell’estetica giapponese. Durante il giapponismo si sono espresse in Italia soprattutto le prime tre fasi, senza che tuttavia vi sia stata una rigida separazione cronologica tra una tappa e l’altra».

Il neogiapponismo: le influenze ai limiti dell’appropriazione culturale 

Negli anni Settanta il Giappone diventava una potenza economica. Ebbe occasione di dimostrarlo con l’Expo di Osaka, in seguito al quale la cultura nipponica godette di ulteriore popolarità. «Mila Schön, Irene Galitzin e Ken Scott inserirono espliciti riferimenti al Giappone nelle loro collezioni. Ciascuna offrì una propria interpretazione della cultura e della moda nipponiche», prosegue Dimitrio. Tutte e tre hanno inserito nei tessuti motivi decorativi – farfalle, crisantemi e iris – percepiti in Italia e in Europa come tipicamente giapponesi. Inoltre «in alcuni dei loro modelli i riferimenti al Giappone si mescolarono con i riferimenti alla Cina, senza eccessi scrupoli filologici».

Gli anni Ottanta: l’Oriente tout court 

La stagione Autunno-Inverno 1981/1982 fu celebrazione dei canoni orientali. Akira Kurosawa aveva appena vinto il premio Palma d’Oro al Festival del cinema di Cannes con il film Kagemusha – L’ombra del guerriero. Si erano intanto accesi i riflettori anche sulla tradizione cinese. Il merito era della mostra sugli abiti di corte della dinastia Ch’ing: The Manchu Dragon: Costumes of the Ch’ing Dynasty, 1644 – 1912, Metropolitan Museum of Art di New York. Questi due avvenimenti furono le influenze principali del periodo. Quasi tutte le collezioni degli stilisti italiani della Autunno-Inverno 1981/1982 presentavano elementi orientali. Lancetti, Armani, Ferrè, Mario Valentino e Krizia. Tutti creavano abiti ispirati a quelli dell’Ultima Imperatrice della Cina o alle armature dei samurai. Oppure ai kimono tradizionali, alle geishe o agli abiti del teatro kabuki. La giornalista Marylou Luter definì questa tendenza creativa fall fashion’s spaghetti shogunate.

Dimitrio cita uno degli articoli dell’epoca di Francesco Alberoni. È stato il successo tecnologico e industriale del Giappone che ha aperto gli occhi degli europei e degli americani, che ha fatto scoprire la bellezza del teatro giapponese, dei suoi giardini, delle sue armature, dei suoi costumi. Fino a pochi anni fa noi eravamo colpiti, impressionati dalle armature giapponesi che però continuavano ad apparirci stravaganti, eccessive, barbariche. Nell’ultimo film di Kurosawa abbiamo scoperto la loro bellezza ‘rinascimentale’. L’abbiamo vista perché Kurosawa l’ha mostrata, ma anche perché eravamo pronti a vederla. L’imitazione che i nostri stilisti fanno del costume giapponese è la conseguenza di una capitolazione collettiva. È perché ha vinto il Giappone moderno che ci apriamo al suo mondo antico. Il neogiapponismo, però, aveva una doppia anima. Da un lato c’era la ricostruzione dei costumi tradizionali giapponesi. Dall’altro, l’affermazione degli stilisti di avanguardia: si stavano imponendo con le proprie idee. 

L’avanguardia giapponese: Kenzo, Issey Miyake, Yohji Yamamoto, Rei Kawakubo e Junya Watanabe

Tra il 1970 e il 1983 debuttarono a Parigi i massimi esponenti dell’avanguardia giapponese: Kenzo Takada, Issey Miyake, Junko Koshino, Yohji Yamamoto, Rei Kawakubo e Junya Watanabe. Non rivoluzionarono solo i costumi tradizionali giapponesi, ma anche i canoni estetici occidentali. Dimitrio ricorda che «i cambiamenti non riguardavano solo la forma degli indumenti, ma anche il taglio e i materiali usati per confezionarli»

Gli avanguardisti ribaltarono i canoni occidentali. Diedero vita a una nuova donna sicura di sé per intelletto e non per forma. Gli abiti erano caratterizzati da strutture fluide per celare le silhouette femminili. Netta la contrapposizione con la moda italiana ed europea, che nel frattempo aveva puntato l’attenzione sui corpi delle donne per renderle più seducenti. I capi, inoltre, avevano buchi, nodi e destrutturazioni. Deformazioni e alterazioni. L’accostamento di tartan e floreale, turchese e verde.

Gli stilisti prosegue Dimitrio, «si sono proposti di annullare l’opposizione tra abbigliamento giapponese e occidentale, giungendo alla fusione di identità culturali anche molto diverse. Pur tenendo in considerazione le proprie origini culturali, Kenzo, ma anche Miyake, Yamamoto e Kawakubo hanno attinto anche ad altre tradizioni vestimentarie, anticipando nel campo della moda la globalizzazione di cui tanto si sarebbe parlato nei decenni successivi».

Kogyaru e kawaii – il giapponismo oggi: Fiorucci, Moschino e il più di recente GCDS

La terza fase delle influenze nipponiche è quella contemporanea. Alcuni sociologi lo chiamano soft power, perché attrae grazie al potere culturale che si impone sul resto del mondo. Il giapponesismo nella moda è trainato soprattutto dai giovani delle subculture di grandi metropoli, come Tokyo, che esprimono dissenso nei confronti della società globalizzata. Un atteggiamento già diffuso negli anni Novecento. A Shibuya nasceva lo stile Kogyaru. Le adolescenti di Tokyo si travestivano da abbronzate liceali. Indossavano uniformi scolastiche riadattate, dove le gonne erano sostituite da maliziose minigonne. Nel quartiere di Harajuku si diffusero invece le Lolita: ragazze vestite come bambole dell’Ottocento, con abiti ricchi di pizzi. Le Lolita hanno dato vita allo stile kawaii, negli ultimi decenni ispirazione per marchi italiani come Fiorucci, Moschino e il più di recente GCDS. Kawaii può essere tradotto con l’aggettivo ‘carino’. Letteralmente: ‘tutto ciò che finisce in -ino’. Rappresenta una tendenza legata a canoni estetici puerili, che prendono ispirazione da cartoni animati e animaletti.  

«Il governo nipponico è stato costretto di recente ad affrontare questioni ambientali ed energetiche e a riconoscere che il primato economico giapponese è stato scalzato da altri giganti asiatici come la Cina. Il soft power è un baluardo per mantenere salda la leadership. Nel 2009 il Ministero degli Affari Esteri giapponese ha nominato tre giovani ambasciatrici che hanno fatto il giro del mondo per promuovere la cultura kawaii. Una di loro, Misako Aoki, ha fatto tappa anche in Italia e ha partecipato nel dicembre 2011 al NiMi Festival di Firenze, un evento dedicato alla cultura giapponese».

Laura Dimitrio

Studiosa e docente di Storia della moda, ha ripercorso oltre due secoli di storia puntualizzando per ogni periodo come le influenze del Giappone abbiano trasformato modi di essere e di vestire nell’emisfero Ovest. Il libro, edito da Skira Edizioni, presenta anche una ricerca iconografica e fotografica, che arricchisce le analisi culturali.

Noemi Soloperto

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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